Il calzolaio.

Quand’ ero piccola , avevo anch’ io le mie incombenze in casa: dovevo asciugare le posate, pulire il fornello a gas e, in genere al lunedì, dovevo pulire le scarpe usate la domenica, quelle della festa.

Mia madre mi faceva sedere su una piccola sedia impagliata, mi metteva sulle ginocchia un vecchio grembiule e mi  dava in consegna una scatola in cui era contenuto  tutto l’ occorrente per eseguire l’ operazione.

Le strade da quelle parti allora non erano asfaltate perciò bisognava rimuovere fango e polvere prima di passare la spazzola con il lucido adatto al colore delle scarpe. Era durante questa operazione che si controllava se le calzature avessero bisogno dell’ opera di Giliberto, il calzolaio che abitava poco distante.

Così finito il lavoro di manutenzione e riposte le calzature in ordine in attesa della festa successiva, andavo a portare quelle bisognose di riparazione dal calzolaio.

Aveva il suo angolo di lavoro in casa sua, accanto alla macchina da cucire di sua moglie che faceva la camiciaia ;ai miei occhi la signora era bellissima, coi suoi capelli biondi ossigenati e le labbra dipinte.

Giliberto invece aveva un viso troppo lungo  e i capelli arruffati, ma un sorriso simpatico. Sedeva su una sedia bassa davanti a un tavolino pieno di chiodini, suole di cuoio, spago, colle varie e il tutto emetteva un caratteristico odore acre che ti pizzicava le narici..  Le pareti dietro di lui erano attrezzate con ripiani pieni di scarpe di tutti i tipi in attesa della sua opera o in attesa di essere riconsegnate ai proprietari.

Prendeva in mano le scarpe che gli porgevo , le esaminava con cura ed emetteva la sua sentenza . ” Qui ci vuole una bella risuolata, … qui sono partiti i tacchi… .. vieni a riprenderle fra … ”  e mentre parlava aveva sempre tra le labbra un mozzicone di sigaretta che ballava pericolosamente o un chiodino, di quelli che stava battendo con quel  curioso martello dalle lunghe code e dalla testa allargata.

Allora, nel pomeriggio, la radio trasmetteva una rubrica dedicata ai ragazzi, che io ascoltavo spesso. La sigla era una canzoncina che diceva così: “Io son mastro Lesina, son ciabattin/ faccio scarpette di tipo assai fin/lavoro contento, mi piace cantar/ e ai bimbi buoni le fiabe narrar.” Seguiva poi il racconto di una favola e io immaginavo che dietro quella voce si nascondesse proprio il mio vicino Giliberto.