Il IV Novembre per me….

Il 4 novembre per me:

è la morte dei miei nonni (uno dei quali giovanissimo);
è la rovina delle loro famiglie numerose, rimaste allo sbando;
è la vita piena di stenti di due bambini diventati poi i miei genitori;
è la povertà della mia famiglia, con mio padre che si alzava quando era ancora buio per andare ai mercati;
è le tante rinunce di mia madre, che usciva col borsellino in mano perchè comprarsi una borsa sarebbe stato un lusso eccessivo.
Gli effetti nefasti delle guerre non finiscono coi trattati di pace.

Battiam , battiam le mani….

Quando eravamo piccini
la nostra maestrina
con la più gran disciplina
tutti faceva filar
lei ci metteva in riga
gridando “fate attenzion”
“adesso marcerete cantando questa canzon”.

Battiam battiam le mani
arriva il direttor
battiam battiam le mani
all’uomo di valor …….

Questo è l’ inizio di una canzone di uno dei primi festival di Sanremo , il che testimonia che anche allora il livello artistico non era sempre elevatissimo, ma le parole dicono bene cosa succedeva nella mia classe quando si aspettava la visita del direttore didattico. Questo evento capitava regolarmente una volta all’ anno e veniva preannunciato.

Ora bisogna sapere che ai miei tempi c’ erano ancora i banchi di legno a due posti col leggio mobile, per consentire di alzarsi e sedersi agevolmente e bisogna anche sapere che quando entravano in classe degli insegnanti o delle autorità si doveva scattare in piedi , mentre i legggii sbattuti di colpo facevano un gran fracasso. Per evitare questo inconveniente , qualcuno in vena di riforme modernizzatrici [:-)] deve aver suggerito di abolire quel saluto un po’ militaresco che ricordava un infausto recentissimo passato ed ecco così che le maestre presero a designare tra gli alunni o le alunne(tra l’ altro vigeva ancora la differenziazione tra classi femminili e maschili) quello che aveva la voce più squillante e stentorea per assegnargli l’ incarico di gridare ” Attenti! “. A quel punto tutti noi dovevamo protendere le braccia fino a toccare con la punta delle dita l’ estremità anteriore del banco , dove c’ era la scanalatura per contenere le cannucce e le matite e atteggiare in modo composto il busto e le gambe (!!!) . In quella posizione si restava fino al comando di “Riposo!” della maestra. Era certo un bel passo avanti: niente sbattimenti di leggii, niente rumore!!!

Così quando si veniva a sapere che sarebbe arrivato il direttore, la maestra ci faceva fare le prove di come dovevamo comportarci per salutarlo . Una di noi (era una classe femminile) usciva dalla porta, aspettava un po’ e bussava. La maestra rispondeva “Avanti” e la bambina che interpretava l’ ambito ruolo del direttore entrava , trattenendo a stento un sorriso di soddisfazione e in quel momento l’ Alda, che aveva la voce più squillante, gridava il suo comando.La maestra allora passava tra i banchi a controllare che tutti avessero assunto la posizione più corretta. Non mancava poi di raccomandarci una particolare igiene delle unghie e una cura più attenta della pulizia del grembiule e dei nastrini bianchi che dovevamo avere tra i capelli. Quando arrivava il giorno fatidico, c’ era sempre la maestra della classe accanto che veniva ad avvisare, facendo un cenno dalla porta appena socchiusa.

La mia insegnante cominciava ad agitarsi visibilmente e noi restavamo in attesa in perfetto silenzio finchè arrivava il “toc toc” che faceva esplodere l’ “Attenti!!” dell’ Alda e tutte le nostre braccia scattavanoo all’ unisono; io ricordo ancora che al vedere quell’ uomo non troppo alto, ma con grossi baffi ispidi e capelli crespi e grigi, mi sentivo un certo tremolio allo stomaco e notavo che le guance della mia maestra diventavano rosse rosse, come succedeva sempre quando c’ era in visita un’ autorità.

P.S. Quel direttore di cui non ricordo il nome, sembrava uscito da uno di dei disegni che illustrano il “Giornalino di Gian Burrasca”

La trebbiatura

Riporto da ELDAS questo ricordo d’ infanzia.
g-luglio-bram-trebbiatura-52-ingr-k

Pochi giorni dopo la fine della mietitura, succedeva che una mattina, all’alba, il borgo veniva svegliato dallo sferragliare della trebbiatrice. Allora mi alzavo e andavo di corsa alla vicina fattoria.
Ogni volta quella enorme macchina che riempiva l’aia, mi incantava: mi sembrava un grande drago meccanico, somigliante a quello raffigurato nelle immagini di S: Giorgio, solo che non sputava fuoco, ma ingoiava i covoni che un addetto, tutto imbacuccato come se fosse inverno, lanciava nel suo inghiottitoio.
Attorno, in mezzo a un frastuono assordante, si affaccendavano parecchie persone, che andavano avanti e indietro avvolte da una nuvola di polvere e di pula, che il gran caldo faceva appiccicare alla pelle umida di sudore. Una di quelle persone era addetta all’imballaggio della paglia e un’altra ancora raccoglieva il grano che veniva ammucchiato sull’aia, là dove era pavimentata proprio per accogliere il raccolto.

Nei giorni successivi il grano veniva steso, perchè asciugasse al sole e noi bambini venivamo incaricati di fare la guardia perchè i passeri non facessero troppa festa, così ci appostavamo in un angoletto in ombra, pronti a sbucare fuori schiamazzando appena qualche passero si posava goloso a rimpinzarsi il gozzo.
Dovevamo anche rimescolare di tanto in tanto il grano perchè si asciugasse uniformemente, allora strascicando i piedi nudi in quella distesa dorata tracciavamo dei solchi concentrici , o meglio una grande enorme spirale , sotto il sole cocente.
La luce era abbagliante, il grano era caldo e i chicchi ti facevano un lieve solletico scivolando tra le dita.
A sera i contadini con grosse pale di legno ammucchiavano di nuovo il grano per poterlo coprire e ripararlo così dall’ umidità della notte, ma l’ indomani il rito dell’ essiccazione si sarebbe ripetuto fino a che il grano fosse stato pronto per attendere la molitura.

Essere nonna.

Non ho mai conosciuto i miei nonni (maschi) , entrambi portati via dalla spagnola; ho conosciuto però le mie nonne.
Una, nonna Carolina, viveva nel paese vicino al mio e me la ricordo solo nel momento in cui , già molto anziana , è venuta per un periodo in casa nostra : ricordo solo che allora verso sera l’ accompagnavo sulla strada a passeggiare un po’, ma la sua scomparsa non mi ha colpito molto: i nostri rapporti erano stati radi e poco profondi.

L’ altra, la nonna Marcellina, abitava accanto a noi, ma era sempre molto preoccupata per tanti problemi e per quel suo gran mal di testa che spesso le faceva dire :- So che morirò presto….- Poi quel suo mal di testa sfociò in un ictus, cui sopravvisse in condizioni gravemente menomate e allora di lei ricordo le volte in cui si soffermava davanti allo specchio per salutare quella signora così gentile che vi vedeva riflessa.
Mia madre l’ ha accudita per 15 anni e capitava anche a me di aiutarla a vestirsi o a pettinarsi e ricordo quando di notte (dormivamo nella stessa stanza) venivo svegliata dalle sue mani che cercavano l’ interruttore della luce e dal suo ansimare faticoso.

Di entrambe però non ricordo gesti di particolare affetto (da noi le smancerie erano ritenute poco dignitose), o momenti particolarmente significativi, forse perchè avevano molti nipoti e sarebbe stato molto arduo coccolarli tutti.

Da molti giorni ho qui con me Davide ed Elisa e spero che portino con sè il ricordo di momenti sereni, di giorni passati facendoci compagnia e cercando di imparare sempre qualcosa di nuovo. Vorrei essere ricordata non solo come nonna biologica, ma come nonna che ha riempito qualche attimo della loro esistenza.

Col caldo , stirare è un incubo, ma una volta era anche peggio..

L’ altra notte il caldo mi ha fatto risvegliare nel cuore della notte (erano le due) con la sensazione precisa che non sarei riuscita a riaddormentarmi tanto facilmente e così dopo un po’ mi sono alzata, sono scesa al piano terra notevolmente più fresco e ho notato che una montagna di panni da stirare cercava insistentemente di attirare la mia attenzione.
Stirare di questi tempi, col caldo che fa, è proprio un brutto mestiere, perciò cosa c’ è di meglio che stirare di notte….
Ho riempito la caldaietta del ferro e in un paio d’ ore ho rimesso in ordine tutto quanto c’ era in giro. Mentre stiravo pensavo che ora tutto è così semplice: basta inserire una spina ….in altri tempi non era così.

Mia madre, quando ero piccola io, usava un ferro a carbone proprio come quello della foto.

Prendeva delle braci dalla stufa, accesa anche d’ estate per poter cucinare, aggiungeva della carbonella fino a riempire il ferro e lo agitava a mo’ di pendolo affinchè la ventilazione che si produceva all’ interno dell’ attrezzo facesse avvampare tutta la carbonella e a quel punto si poteva cominciare a stirare. Anch’ io mi cimentavo a volte in questo lavoro e mi dedicavo alla stiratura dei fazzoletti da naso che la mamma aveva già ben sistemato l’ uno sull’ altro :stirando il primo, anche quello sottostante era già pronto per essere ripiegato .
Le cose più complicate naturalmente venivano stirate dalla mamma, che utilizzava anche uno spruzzatore per inumidire le pieghe più persistenti. Non era raro però che la carbonella sprizzasse scintille dai fori del ferro e allora poteva anche capitare che si verificasse qualche piccola bruciatura sul tessuto sottostante. A volte anche la cenere cadeva sui vestiti da stirare e se non si stava attente si rischiava di dover rilavare l’ indumento.

Quando la carbonella si esauriva, bisognava rifornire di nuovo il ferro e ripetere l’ operazione di accensione della carbonella stessa. Il tutto richiedeva tempo e fatica….

Pensavo a tutto questo nel silenzio della notte e ringraziavo la tecnologia moderna che ha reso meno pesante anche questa parte del lavoro delle casalinghe.

La mattina dopo , appena ho aperto gli occhi, ho pensato con grande soddisfazione che poteva anche far caldo , caldissimo , tanto non dovevo più pensare a stirare.

La spigolatura.

E’ uno dei primi post che ho scritto su Eldas e che ora riporto anche qui per ricordare un tempo che ormai pare così lontano, ma ancora così vivo nella memoria.

La mattina ci alzavamo alle prime luci dell’alba, ci portavamo un po’ di pane e un po’ d’acqua e andavamo sui campi appena mietuti, dopo aver chiesto il permesso al padrone, che mai si sarebbe sognato di negarcelo.
Arrivavamo sul campo coi piedi bagnati di rugiada e l’aria ancora fresca rendeva meno pesante la fatica. Ricordo mia madre ,col capo avvolto in un fazzolettone, china sulle stoppie taglienti che ci ferivano le caviglie, scrutare il terreno per individuare le spighe dimenticate o cadute durante la mietitura. Io e mia sorella la imitavamo e facevamo a gara per fare le mannelle più grosse, che poi riponevamo in un sacco, ben legate con la stessa paglia delle spighe.

Ci facevano compagnia gli uccellini che a quell’ora riempivano l’aria coi loro cinguettii e che forse non erano troppo contenti di vedersi sottrarre quel ben di Dio. Qualche lontano muggito ci diceva che alla fattoria era l’ora della mungitura.

Percorrevamo il campo in lungo e in largo con lo sguardo fisso a terra e quando si trovava un mucchietto di spighe sfuggito ai mietitori era una festa, potevamo ingrossare le nostre mannelle in fretta.

Col passare delle ore il sole picchiava sempre di più sulle nostre teste e la fatica era sempre più evidente sulle nostre facce arrossate e sudate, ma ormai il sacco era pieno; il mio papà arrivava in bicicletta, lo  caricava sulla canna e noi   potevamo tornarcene a casa.

Al giorno d’ oggi, la cultura dello spreco ci ha contaminato così a fondo che sembra incredibile che non troppo tempo fa si facesse concorrenza agli uccellini per procurarsi la farina per l’inverno.

2-3 Giugno 1946/ 2 giugno 2012

Era la prima volta che le donne votavano.
Dalla proclamazione del Regno d’ Italia solo gli uomini avevano avuto il diritto di voto: prima esso era riservato a una ristretta élite di privilegiati poi in fasi successive era stato esteso a strati sempre più ampi della popolazione maschile, ma di voto alle donne neanche a parlarne.

Poi il 2-3 giugno 1946, quando ci fu il referendum per scegliere l’ assetto del nostro Stato, anche le donne ebbero la possibilità di recarsi alle urne.
In paese c’ era gran fermento tra le donne, raccontava mia madre; lei, incinta, era ormai prossima al parto e chi la incontrava le diceva :
-Stai attenta a non partorire mentre sei nella cabina elettorale! –
Sapendo delle sue condizioni, tutti i partiti si erano offerti di venire a casa a prenderla con l’ automobile, ma lei non accettò : sceglierne una poteva far pensare che preferiva un partito piuttosto che un altro  e il  voto invece doveva essere segreto. Un’ anziana vicina, la Nunziata, disse a mia madre che sarebbe stata contenta di accompagnarla e così pur col suo pancione si recò a votare: andarono  a piedi lei e la Nunziata, anche se faceva caldo e la strada da fare non era proprio brevissima, ma non rinunciò a partecipare a quell’ evento memorabile che per la prima volta riconosceva alla donna il diritto di far valere il suo parere, proprio come agli uomini…cosa mai accaduta nella storia del nostro Paese. Due giorni dopo venni al mondo io…

Ora, a distanza di 66 anni, tanti diritti di cui godiamo ci paiono scontati e non diamo loro il giusto valore perchè ci siamo dimenticati delle tante battaglie, combattute da coloro che ci hanno preceduto, per poterli affermare.

La mietitura .

La giornata lavorativa cominciava prestissimo in estate e i mietitori si radunavano sull’aia in attesa che il “rasdor” dicesse su quale campo di grano ci si doveva recare.
Ognuno aveva la sua falce e dei vestiti adatti a riparare il più possiile dalla polvere e dal sole: larghi cappelli di paglia, fazzolettoni al collo e, spesso, piedi nudi .

Noi bambini seguivamo le mamme, perchè a casa non restava nessuno che badasse a noi e ci rendevamo utili posando a terra i “ligam”,. I mietitori con gesti rapidi e sicuri falciavano gli steli ormai secchi ,adagiavano sui legami le mannelle di frumento fino a comporre il covone, che veniva legato e sistemato all’impiedi (con le spighe rivolte verso l’alto) accanto agli altri. Sarebbe poi passato il carro tirato dai buoi a caricarli e a portarli alla cascina.

Noi bambini avevamo anche il compito di portare l’acqua ai mietitori e facevamo la spola tra la cascina e il campo. Al nostro arrivo essi smettevano un attimo di lavorare e ognuno attingeva un buon mestolo di acqua fresca dal secchio riempito al pozzo.
Ricordo con particolare nitidezza i volti arrossati dalla fatica e dal gran caldo e la polvere che si appiccicava ai volti sudati dei mietitori.

Il sole a picco picchiava forte e le stoppie pungevano piedi e caviglie dei mietitori, ma c’era sempre qualcuno che amava cantare e che ogni tanto intonava una di quelle canzoni che tutti conoscevano; via via altre voci si univano alla sua a formare un coro che parlava di fatica sì, ma di fatica condivisa e per questo più sopportabile e più umana

Sere di maggio.

lucciole
lucciole

L’ altra sera nel cortile condominiale si è recitato il rosario , come vuole la tradizione del mese di maggio e questo mi ha portato a ricordare altre sere …..
Quando ero piccola , nel mese di maggio si andava tutte le sere alla cappella di cui era proprietaria la famiglia più in vista della borgata.
Essa ospitava una statuetta della Madonna e un minuscolo altare. adorno di fiori e di candele accese.
Le donne del vicinato si davano convegno davanti alla cappella e una di loro si incaricava di condurre la recita del rosario , che allora veniva recitato rigorosamente in latino.
Di tanto in tanto il rumore di un’ automobile o di una motocicletta che passava sulla strada provinciale copriva il mormorio delle loro voci .
Quando si arrivava alle litanie ,quelle strane parole, che noi bambini sentivamo ripetere all’ infinito senza comprenderle, suggerivano sempre a qualche monello l’ idea di accentuare quel “(no)bis”, prolungando la esse finale più del dovuto. Questo provocava qualche risatina soffocata tra noi bambini, ma poi arrivava puntuale lo scappellotto della madre a por termine a quell’ irriverenza.

Alla fine si intonava un canto alla Madonna e tra tutte le voci primeggiava quella morbida , da contralto, di Elena, che anche nella corale della parrocchia aveva un ruolo importante. Quello per me era il momento più bello, perchè nelle voci ora acute ora gravi di quelle donne già provate da una lunga giornata di lavoro e nell’espressività di quel canto, si sentiva l’ invocazione accorata a Colei che, madre essa stessa, poteva ben capire le loro fatiche.
Poi le mamme si fermavano a scambiare qualche parola tra loro, mentre noi bambini le precedevamo lungo la strada giocando a nasconderci o rincorrendo le lucciole, che nel buio della sera sembravano piccole creature magiche uscite da un libro di favole.
Ricordo anche gli odori che uscivano dalle case dove si era appena consumata la cena, il profumo delle rose nei giardini e del caprifoglio; poi, dopo un rapido scambio di saluti, ognuno rientrava nella propria casa.
Nella strada tornava il silenzio e poco dopo si spegnevano anche le luci nelle case, perchè non c’ era ancora la televisione a riempire le serate delle famiglie e inoltre il mattino dopo la sveglia sarebbe suonata di buon’ ora.

Sòta ai pòm

C’ è una campagna, ogni anno, per la valorizzazione di luoghi di interesse culturale ed artistico e chiunque può segnalare un monumento, un edificio, una località che ritiene degna di attenzione.

Io ho un “luogo del cuore” , ma non so se esista ancora e non ha certo valore artistico, ma solo affettivo: è un filare di meli, non di quelli di adesso che crescono ad altezza d’ uomo per facilitare la raccolta dei frutti, ma quei meli alti almeno cinque metri da terra, che davano delle mele piccole, ma saporite, che ora non si vedono più sui banchi dell’ ortofrutta, nè nei mercati, nè nei supermercati.

Vicino a casa mia, oltre un cancello enorme sempre aperto (solo ora mi chiedo il perchè di quel cancello,
visto che non veniva mai chiuso), si apriva un sentiero sterrato lungo qualche centinaio di metri, fiancheggiato da una parte da campi coltivati a grano o a foraggio e dall’ altra da questo lungo filare di meli, sotto cui noi bambini della contrada ci incontravamo per giocare.

C’ era sempre erba fresca su cui fare le capriole e ombra ristoratrice nei giorni più caldi.
Sul sentiero si poteva giocare alla “settimana” o a spingere qualche cerchione di bicicletta,O a un gioco di abilità con cinque semi di pesca. Gli alberi fornivano ottimi ripari per giocare a nascondino e c’ era sempre qualche pianta da cui prendere qualche pera o prugna o un grappolo d’ uva secondo le stagioni, col tacito consenso dei proprietari.
Molto spesso coglievamo anche frutti acerbi e al solo pensarci mi pare di sentire ancora quel sapore aspro che ti faceva venire l’ acquolina in bocca.
A volte, quando il grano era ormai maturo, coglievamo una spiga, la sbriciolavamo tra le mani, con un soffio facevamo volare via la pula e poi sgranocchiavamo i chicchi, che ben presto diventavano una pallottola piuttosto gommosa, ma dal buon sapore.

Quando mia madre non ci trovava, sapeva di dover chiamare a voce un po’ più alta perché certamente dovevamo essere “sòta ai pòm” (=sotto i meli).