Quando non c’era la lavatrice…..

In fondo al cortile della vecchia casa in cui abitavamo quando ero piccola, c’ era un pozzo artesiano provvisto di carrucola per attingervi l’ acqua col secchio. Mi piaceva sentire il tonfo del recipiente dentro l’acqua dopo la discesa veloce, poi però  la risalita era lenta e faticosa ed era accompagnata dai cigolìi  lamentosi della carrucola e della catena.

C’ era un momento in particolare in cui la carrucola doveva lavorare di più e il secchio continuava ad andare su e giù instancabilmente: quando si dovevano lavare le lenzuola di tutta la famiglia.

Si accendeva il fuoco coi “malgas”, i fusti secchi del mais, in una fornace accanto al pozzo. e si scaldava l’ acqua in un grande paiolo. Nel frattempo si faceva il prelavaggio per  insaponare  le lenzuola e adagiarle nel grande mastello di legno posizionato su un trespolo al centro del cortile. Alla fine venivano cosparse di “lisciva” e  ricoperte con un grande telo bianco su cui veniva versato un consistente strato di cenere. A questo punto si versava sulla cenere l’ acqua bollente del paiolo e si lasciava il bucato in ammollo per alcune ore.

lavare-al-mastelloLa parte più spettacolare però veniva quando la mamma aiutata da una delle mie sorelle o da una vicina, cui sarebbe presto stato ricambiato l’ aiuto, si mettevano a sbattere le lenzuola sulla lunga asse posta trasversalmente al mastello: ognuna prendeva il lenzuolo da un capo e insieme lo alzavano con un sincronismo perfetto per farlo ricadere con forza sull’ asse. Gli spruzzi si spargevano per un largo raggio tutt’ intorno fino a quando si cominciava a ritorcerlo fino a farlo diventare un lungo serpente schiumoso.

Seguivano poi almeno due risciacqui e quindi tutti davano una mano ad attingere o a trasportare i secchi pieni d’ acqua  e alla fine le lenzuola potevano  essere stese ad asciugare nel cortile come grandi vele che profumavano di pulito.

Ricordare ora quei momenti è bello, ma ogni volta che devo fare il bucato mi viene in mente la fatica immane di mia madre e penso: W la lavatrice!!

La spigolatura.

La mattina ci alzavamo alle prime luci dell’alba, ci portavamo un po’ di pane, qualche frutto e un po’ d’acqua e andavamo sui campi appena mietuti, dopo aver chiesto il permesso al loro proprietario, che mai si sarebbe sognato di negarcelo.
Arrivavamo sul campo coi piedi bagnati di rugiada e l’aria ancora fresca rendeva meno pesante la fatica. Ricordo mia madre ,col capo avvolto in un fazzolettone, china sulle stoppie taglienti che ci ferivano le caviglie, scrutare il terreno per individuare le spighe dimenticate o cadute durante la mietitura. Io e mia sorella la imitavamo e facevamo a gara per fare le mannelle più grosse, che poi riponevamo in un sacco. Mio padre sarebbe passato con la bicicletta e lo avrebbe caricato sulla canna.
Ci facevano compagnia gli uccellini che a quell’ora riempivano l’aria coi loro cinguettii e che forse non erano troppo contenti di vedersi contendere quel ben di Dio. Qualche lontano muggito ci diceva che alla fattoria era  l’ora della mungitura.
Col passare delle ore, il sole picchiava sempre di più sulle nostre teste e la fatica era sempre più evidente sulle nostre facce arrossate e sudate, ma nella tarda mattinata ormai il sacco era pieno e potevamo tornarcene a casa.
Oggi,  la cultura dello spreco ci ha contaminato  a fondo e  sembra incredibile che non troppo tempo fa si facesse concorrenza agli uccellini per procurarsi la farina per l’inverno

Comincia l’ autunno

Sta cominciando bene questo autunno. Il sole fa risplendere la superficie del lago perfettamente liscia.  Le montagne che lo racchiudono, appena velate da una leggerissima foschia , vi si specchiano tingendolo di un verde intenso.

La gente passeggia sulle piste, appositamente allestite, in abbigliamento estivo e molti affollano il piccolo bar gustando una bevanda o un gelato. Un branco di oche invade il sentiero, dopo aver abbandonato per un po’ le acque  limacciose della riva, fitta di canneti. Una farfallina arancione e una azzurra volteggiano sui pochi fiori come per rincorrersi E’ piacevole camminare senza fretta lasciandosi accarezzare  dal vento leggero che si alza ogni tanto. Godiamoci queste giornate: tra poco ne sentiremo la nostalgia.

P.S. la foto ritrae proprio il laghetto cui si riferisce il post. :il lago del Segrino.

Un ricordo di scuola.

Eravamo alla fine degli anni settanta e non c’ era ancora una normativa che regolasse l’ inserimento degli handicappati nelle scuole statali.

All’ inizio dell’ anno scolastico ,  io e la mia collega ci trovammo a dover formare due classi suddividendo 58 alunni di cui 5 handicappati gravi inseriti nel gruppo da un istituto di cura e riabilitazione di bambini disabili, che sorgeva nei pressi della nostra scuola La situazione era praticamente ingestibile e allora pensammo di chiedere che l’ insegnante di sostegno presente nel plesso fosse destinata in esclusiva alle nostre classi in modo da formare tre gruppi, fissi per le attività curricolari, che si sarebbero poi rimescolati per attività integrative. La cosa ebbe l’ approvazione a malincuore del collegio docenti: cosa credono di fare queste qui? era la domanda che si sussurravano tra loro le colleghe…, che si guardarono bene dal concederci di poter avere tre aule a piano terra, nonostante fosse evidente che con un bambino in carrozzinaaltri con gravi difficoltà motorie la cosa era di primaria importanza.

Nonostante questo ci provammo, era una questione di sopravvivenza!!

Al momento delle attività integrative le aule si trasformavano in “palestra” o in laboratorio e i bambini stessi ci aiutavano a spostare i banchi secondo le necessità. Quando poi si doveva salire al primo piano io prendevo il bambino distrofico in braccio mentre i bambini trasportavano la sua sedia .

Tutto questo movimento era visto con grande scandalo dai colleghi i quali al solo sentire parlare di “classi aperte”  si facevano venire un attacco di orticaria.  I genitori dei nostri alunni invece ci sostenevano a spada tratta anche perchè vedevano l’ entusiasmo dei bambini e i loro progressi nell’ apprendere nonostante le obiettive difficoltà. Si era creato un clima di vera solidarietà e di collaborazione tra insegnanti, alunni e genitori.

Perchè la nostra esperienza potesse continuare abbiamo dovuto presentare progetti ben argomentati  che preparavamo ora a casa di una di noi tre insegnanti ora a casa dell’ altra.

Eravamo tutte e tre sposate con figli anche molto piccoli e rubavamo alla cura della casa le ore per questi straordinari.

Alla fine ci fu riconosciuta la costituzione della terza classe e l’ esperienza continuò per tutti e cinque gli anni senza che nessuno potesse più obiettare.

Ricordo sempre con piacere e con gratitudine le colleghe, una proveniente dal sud, l’ altra profuga giuliana, con le quali ho diviso quell’ avventura: mettendo insieme i nostri talenti e le nostre forze avevamo realizzato una scuola capace di farsi  carico delle esigenze di tutti , senza trascurare (anzi potenziando) le occasioni di apprendimento e il raggiungimento degli obiettivi didattici.

Quella carezza della sera….

Ero andata a trovare i miei e mia madre a un certo punto se ne uscì dicendo: 
– Che bello questo momento per te: hai i tuoi bimbi vicini, quando esci o vai in viaggio te li porti con te e sai che sono al sicuro …
 
Era il periodo in cui  correvo tutto il giorno tra scuola materna, scuola elementare , lavoro, faccende di casa e ospedali (che hanno avuto una buona parte nella vita familiare) e dissi a mia madre che  quello non poteva essere ciò che di meglio potevo aspettarmi dalla vita: non avere mai tempo per me, correre, sempre correre, dover sempre occuparsi delle cose non rinviabili, più pressanti…. non vedevo l’ ora che i bambini crescessero e fossero più indipendenti….

Ora , a distanza di tanti anni, con una casa sempre troppo spaziosa e silenziosa, penso che mia madre aveva ragione e la sera, quando vado a dormire, vorrei tanto poter aprire le camerette e vederli tutti e tre dormire sereni e tranquilli, abbracciati al loro orsacchiotto  e poterli sfiorare ancora con una carezza…

Il mio 11 settembre.

Era stata una mattina pesante e, dopo aver lavato i piatti e sistemato la cucina mi ero messa sul divano , davanti al televisore, per riposare un po’. Sullo schermo apparve l’ immagine di  grattacieli che stavano bruciando. “Oh, no – mi son detta – non  ho voglia di vedere uno dei soliti film catastrofici” e cambiai canale, ma anche lì c’ era la stessa immagine….  e bastarono pochi secondi per capire che era tutto vero: le torri gemelle stavano bruciando colpite da due aerei.  Fui presa da un’ angoscia terribile : chi poteva aver pensato un attacco tanto spaventoso? Quante persone stavano in quel preciso momento morendo in un modo orribile? Cosa sarebbe successo di lì a poco? Stava forse per scoppiare una guerra?

Mia figlia , proprio in quel momento era all’ aeroporto e stava per ripartire per l’ Inghilterra , ma i notiziari parlavano di chiusura degli aeroporti, cosa poteva accadere?

Andai a chiamare i miei familiari  e divisi con loro le mie paure …. Le immagini intanto diventavano sempre più atroci e diventava via via più evidente che eravamo dinanzi a un fatto che avrebbe segnato la storia.  Verso sera riuscii a parlare con mia figlia: non sapeva ancora nulla; la partenza dell’ aereo era stata ritardata , ma nessuno aveva spiegato il perchè, ma poi il volo e l’ atterraggio erano stati del tutto normali…. tirai un sospiro .

A distanza di nove anni quel giorno rimane nella mente di tutti quelli che lo hanno vissuto  e in tutti, penso, si riaffacciano ogni tanto degli interrogativi sui molti punti oscuri  di un avvenimento che ha causato lutti infiniti.

Ricordando mio padre.

foto-di-famiglia-1995-001Mio padre è nato il 2 agosto 1906 e oggi voglio ricordare il suo compleanno parlando di lui.

A lui sono grata  per le tante volte in cui, da piccola, mi ha tenuto sulle ginocchia mentre faceva qualche solitario con le carte o quando, la sera dopo cena, faceva qualche partita a briscola con i vicini.

In quelle occasioni, spesso , parlando del più e del meno, si arrivava a raccontare episodi della guerra finita da poco e, in tutto il dolore che affiorava da quei racconti, arrivava sempre il punto in cui mio padre e uno dei vicini, per alleggerire un po’ l’atmosfera, parlavano di un episodio da loro vissuto direttamente.
Era l’Aprile del ’45 e per punire non so quale azione di sabotaggio c’era stato un rastrellamento. Mio padre e il nostro vicino, insieme ad altri, erano stati costretti a seguire una pattuglia armata che li portava verso Fabbrico. Mio padre e il vicino dovevano portare insieme anche una cassa molto pesante; mentre camminavano, mio padre sentiva battere contro la sua spalla qualcosa che non gli piaceva e che non lo faceva stare tranquillo: era la canna del mitra di uno degli uomini della pattuglia. Sudava freddo al pensiero di cosa sarebbe potuto succedere  e quando non ne potè più disse al vicino: – Severino, questa cassa è molto pesante e mi fa tanto male la mano; cosa ne dici di scambiarci di posto?-
A quella richiesta tanto candida, Severino non poteva certo dire di no, ma ben presto ne capì il vero motivo !!!

Fortunatamente di lì a poco arrivò l’ordine di rimandare tutti a casa.
Poi si seppe che quel giorno era stato compiuto l’eccidio della Righetta: la sorte li aveva graziati !

Mio padre raccontava spesso anche un altro episodio, legato al suo daltonismo, che non gli permetteva di distinguere il colore rosso.

Quella mattina, prestissimo, era ancora buio, si era preparato per andare al mercato; aveva chiesto a mia madre una camicia pulita e  se l’era infilata di fretta.  Arrivato a destinazione e sistemata la sua mercanzia, si accorse ben presto di essere fatto segno di un’ attenzione insolita da parte dei frequentatori della piazza: si sentiva un po’ a disagio e non sapeva capacitarsi di quella situazione …. Finalmente un conoscente gli si avvicinò dicendogli : – Catlàn, ma t’a ghè propia un bel curag ….! ! – Mio padre ancora non capiva; chiese perchè mai gli avesse rivolto quelle parole e gli fu risposto che, in un tempo in cui imperversavano le camicie nere, ci voleva un coraggioso o un incosciente a esibirsi pubblicamente in camicia rossa !!!

Mio padre aveva creduto di indossare una camicia verde…

A pesca.

a pesca

I miei fratelli erano molto più grandi di me e non avevamo molte occasioni per fare delle cose insieme.
Ricordo però che tutti e due ogni tanto , in estate, mi portavano a pescare insieme a loro.

Tutto aveva inizio con la ricerca dei lombrichi, che dovevano fare da esca; si andava con la vanga nell’ orto o sulle rive di un fossatello vicino a casa.
Ricordo ora con un certo ribrezzo l’ apparire dei lombrichi lucidi e umidicci tra le zolle smosse; allora invece non mi facevo nessun problema a prenderli e a sistemarli nel barattolo che conteneva anche un po’ di terra.

Si partiva poi in bicicletta , io sulla canna, e si arrivava sulla riva di uno dei  canali  che percorrono la mia zona.
Mi piaceva stare seduta sul ciglio del canale ad aspettare che i pesci abboccassero, tenendo d’ occhio il galleggiante.
C’ era caldo e si sentivano solo i grilli , le cicale e il tonfo delle rane che si tuffavano in acqua, mentre l’ odore dell’ acqua melmosa ti riempiva le narici.

I miei fratelli mi avevano insegnato a innescare gli ami e a lavare poi le mani nell’ acqua del canale, a lanciare la lenza di una piccola canna senza rimanere impigliati nell’amo e a non lasciarsi prendere dall’ ansia di tirare su il pesce al più piccolo segnale di abboccamento, ma si doveva aspettare che il galleggiante andasse sott’ acqua: allora sì che potevi alzare la canna e sperare che ci fosse  attaccato un pesciolino.
Non mi faceva per niente pena vedere il povero pesce dibattersi mentre gli veniva tolto l’ amo dalla bocca; oggi sarei molto più compassionevole.
In genere si pescavano dei pescigatto o dei “gobbi” o altri pesciolini di minor pregio, che poi mia madre puliva e friggeva.
Andare a pesca, oltre che un divertimento ,era un modo per rimediare una cena gustosa.