Film: torneranno i prati…

Per concludere l’anno accademico, Don Ivano ha proposto, a sorpresa, la proiezione del film di Ermanno Olmi “torneranno i prati” (tutto scritto minuscolo, come minuscole sono le storie  dei soldati che compaiono nel film).

Racconta, con lo stile poetico e struggente del miglior Olmi, la vita nelle trincee della Grande Guerra. Soldati costretti a vivere sepolti nelle trincee, tormentati dal freddo, dal fango, dai topi, ma ancor di più vittime di capi imbelli, incompetenti, disumani, che considerano i soldati solo come “pezzi” da lanciare in assalti insensati e inutili.  Gli ordini arrivano da lontano, da stanze ben riscaldate e sicure, in cui  i capi studiano a tavolino le loro mosse, senza tenerne in minimo conto la razionalità. …. e disubbidire voleva dire essere fucilati sul posto… Dalle immagini  in bianco e nero del film, emergono le storie minime dei soldati, che anche se considerati come numeri, come pezzi senza valore, conservano intatta la loro umanità. Bellissime le scene iniziali del film, in cui un soldato napoletano in una chiara notte di luna piena  canta  “Tu ca nun chiagne” e la sua voce dilaga nel silenzio, toccando i cuori dei soldati, italiani e austriaci, che gli chiedono di cantare ancora …. E il soldato intona un’altra bellissima canzone piena di nostalgica tristezza “Fenesta ca lucive” , che tutti ascoltano mentre i loro pensieri volano lontano …La guerra insensata continua a mietere vittime innocenti, ma un giorno finirà e torneranno i prati, tornerà la vita anche su quelle montagne, ma proprio quei prati nasconderanno il ricordo di tanti giovani morti e delle loro sofferenze.

E’ uno di quei film  che ti caricano di un’emozione intensa, tanto da farti star male e che proprio per questo risultano indimenticabili.

A Cavola.

diana catellaniEra l’ottobre del 1969.
Avevo alle spalle solo pochi giorni di supplenza, quando, avendo vinto il concorso magistrale in provincia di Reggio Emilia, fui mandata a Cavola di Toano.
Mio fratello Vincenzo mi aveva prestato i soldi per comprarmi la 500 per poter raggiungere la sede che mi era stata assegnata. Cavola era allora un piccolissimo borgo di montagna, fatto di poche case strette intorno a una chiesetta, a un ufficio postale, a una piccola scuola, a una macelleria aperta solo qualche ora alla settimana e a un negozio che vendeva un po’ di tutto.

Proprio sopra a quel negozio c’era un alloggio, che veniva affittato ogni anno alle insegnanti che venivano mandate in quel paesello sperduto sull’Appennino Reggiano ed è lì che trovai la mia sistemazione insieme a un’altra insegnante di nuova nomina, proveniente dalla città.
C’erano in tutto quattro classi, dato che la prima e la seconda erano unite in una pluriclasse ed eravamo pertanto in quattro insegnanti. La più anziana, che abitava in una frazione vicina, era una profuga giuliana e si chiamava Marcella: era una signora molto dolce, che mi confortava sempre quando mi disperavo per la mia inesperienza e mi dava sempre ottimi consigli. C’era poi Giuseppe, che aveva qualche anno di insegnamento alle spalle e che aveva molta voglia di sperimentare; c’era Marisa, che veniva da Reggio e che, come ho detto, era fresca di nomina come me.
La mia classe era una terza ed era composta, se ben ricordo, da una decina di bambini. Erano tutti molto rispettosi e ben educati; alcuni di loro provenivano da famiglie poverissime, abitanti in casolari sperduti nei dintorni della frazione.
Non avendo avuto precedenti di esperienze di insegnamento, se non le poche supplenze e le lezioni private, mi spaventava l’idea di non essere all’altezza del mio compito, di non poter offrire a quei bambini tutto quello a cui avevano diritto; per questo a volte stavo sveglia di notte a pensare come presentare nel modo migliore il sistema metrico decimale o le frazioni, ignorando che i bambini hanno molto spesso risorse sufficienti a supplire alle carenze dei docenti…
Ricorrevo volentieri ai consigli di Marcella e di Giuseppe e mi confrontavo anche con Marisa che condivideva le mie ansie.
Un giorno, Giuseppe fece una proposta che mi trovò subito d’accordo: perché non tentavamo di valorizzare al meglio le nostre capacità per offrire più stimoli ai nostri alunni, che vivevano in un ambiente che non ne offriva molti? Si trattava di creare dei laboratori con diverse attività e di formare dei gruppi di interclasse (cioè formati da bambini delle diverse classi) che avrebbero ruotato sui diversi laboratori di disegno, lavori manuali, canto e non ricordo cos’altro…
Era un’esperienza nuova e stimolante per me e solo qualche anno più tardi, quando si cominciò a parlare di classi aperte, mi accorsi che eravamo stati dei pionieri.
Ricordo sempre il giorno in cui arrivò l’ispettore. Stavo facendo una lezione di aritmetica ed evidentemente l’ispettore era stato un po’ a origliare alla porta della mia classe, perché entrò dicendo:- No, no, no! Così non va…- Scuotendo l’indice e facendomi diventare rossa come un peperone. Poi però guardò i banchi dei bambini e vide che su ognuno c’era un sussidio didattico che rendeva la mia lezione non astratta, ma basata su cose tangibili e allora cambiò subito atteggiamento.
Probabilmente, oltre ad origliare alla porta, prima di entrare in classe aveva anche ripassato qualche appunto preso l’anno precedente, perché, con mia grande sorpresa, cominciò a parlare coi bambini dimostrando di riconoscerli, di ricordare i loro nomi e anche le loro problematiche familiari o di salute….così ad esempio chiese a un bimbo se aveva rifatto la visita oculistica, a un altro chiese notizie della madre malata e a un altro ancora se avesse cambiato casa… Dimostrava una grande umanità e un grande rispetto per ognuno di quegli scolaretti, che sembravano essere molto più a loro agio di me, parlando con quello che forse consideravano come un nonno buono e gentile.
Di quell’anno ricordo ancora i viaggi tra il mio paese e Cavola. A un certo punto la strada non era nemmeno asfaltata, né tantomeno fornita di guard-rail. La mia 500 era sballottata tra le numerose buche come una diligenza sulle strade del Far-West e una sera di nebbia mi sono accorta ad un certo punto che avevo la ruota di sinistra giusto sull’orlo di un burrone: davanti al fanale era comparsa la sterpaglia che cresceva sul ciglio della strada!!!
Sono passati quasi cinquant’anni da allora ed io non sono più tornata a Cavola, ma, dalle foto che trovo su internet, posso capire che quel borgo sperduto tra i monti non è più come è rimasto impresso nella mia mente.