Una donna coraggiosa d’altri tempi: Egeria

Anche quest’anno, per la festa patronale di Arcellasco, il gruppo culturale ha preparato una mostra (è ormai una tradizione). Il tema che è stato scelto, per quest’anno giubilare, era “In cammino verso i luoghi del sacro”, cioè più semplicemente “santuari e pellegrinaggi”.

Accingendomi a questa impresa, mi sono subito imbattuta in una donna, che non conoscevo: Egeria, la nobildonna ispanica che, negli anni 80 del IV secolo dopo Cristo, ha intrapreso un pellegrinaggio durato quattro anni verso i luoghi della Terra Santa. Da pochi decenni i Cristiani potevano professare liberamente la propria fede e, subito dopo l’editto di Milano del 313, molti avevano sentito il bisogno di andare nei luoghi in cui Gesù era nato e vissuto; tra questi anche la madre dell’Imperatore Costantino, Sant’Elena, ma nessuno aveva lasciato memoria del suo pellegrinaggio.

Egeria, invece, ha descritto minuziosamente luoghi, usanze, atmosfere, riti e cerimonie religiose del tempo, in un latino fresco, spontaneo e altamente comunicativo.

Come ha potuto una donna di quei tempi intraprendere un tale viaggio? Doveva essere una ricca vedova, con agganci politici di alto livello, perchè ha potuto godere di protezione delle autorità civili e religiose del tempo e persino di scorte militari quando si inoltrava in luoghi pericolosi. Partendo dalla Spagna, era arrivata a Costantinopoli e da lì nella penisola Anatolica fino poi ad arrivare nel Sinai in Egitto, fermandosi, naturalmente a lungo, a Gerusalemme.

Egeria ha certamente potuto godere di condizioni privilegiate, ma è comunque stata una donna molto coraggiosa, dalla cultura e dalla sensibilità raffinata, come si evince dal suo diario di viaggio.

Donne in Arabia … donne in Cina

I paesi che odiano le donne dovrebbero essere destinati all’estinzione. Da quel che si evince da questo articolo del POST, l’Arabia Saudita, con cui tutti gareggiano a fare affari, è uno di questi.

Lì, esistono centri che, ufficialmente, si dedicano alla difesa delle donne vittime di violenza, ma che, in effetti, non sono altro che case di detenzione per donne che non si sottomettono alle regole del clan familiare e per questo subiscono ogni sorta di pene fisiche e psichiche.

Essere donna in molti paesi vuol dire essere cittadini di serie B (si pensi solo al gender pay gap), ma almeno le viene riconosciuto il diritto di esistere e di pensare. Altrove nascere donna è una vera disgrazia.

Ma può esistere un paese senza donne? Non credo, anche se può darsi che si arrivi a “fabbricarle ” in laboratorio e forse a questa soluzione penseranno i cinesi che non riescono a trovare moglie: dopo decenni di politica del figlio unico, in cui le famiglie sceglievano di far nascere solo il figlio maschio, oggi i giovani cinesi non trovano donne da sposare e la Cina, come dicono certe proiezioni, nel giro di pochi decenni, si troverà ad avere una popolazione dimezzata: allora anche la sua potenza politica ed economica ne subirà gli effetti.

Povera Martina!

Da due giorni i notiziari ci informano su tutto quanto ruota attorno all’omicidio di una “ragazzina” di 14 anni : Martina Carbonaro di Afragola.

Il colpevole, reo confesso, sarebbe un ragazzo di 19 anni che tutti definiscono “il suo fidanzato”.

Ma di cosa stiamo parlando? Conosciamo ancora il significato della parola “fidanzamento”? Stando alla nostra cultura, il fidanzamento è l’assunzione di un impegno in vista di un futuro matrimonio: ciò implica una maturità e una consapevolezza che non si può avere a 14 anni!!! Come si può consentire a una bambina di quell’età di intrattenere rapporti con un ragazzo di poco più grande?

Perchè le famiglie di oggi non hanno più nemmeno la voglia di fornire esempi di vita vissuta secondo regole etiche?

Due ragazzini si guardano, vogliono sentirsi grandi e scimmiottano i comportamenti che hanno appreso nei video-giochi o nel “mare magnum” di internet e nessuno pone loro dei paletti, delle regole precise di comportamento, dei limiti, proprio per evitare degenerazioni pericolose, … poi la situazione sfugge di mano e tutti a piangere.

Credo che il responsabile debba pagare duramente il proprio delitto, ma credo che tutta la società non possa sentirsi innocente: sono gli adulti i veri responsabili indiretti di quanto accaduto alla povera Martina.

“GENDER PAY GAP” (citando “QUADERNI ERBESI 2024”)

In casa si stava discutendo di condizioni di lavoro e di paghe orarie e mia madre disse a un certo punto con orgoglio che il sig. Tirelli, il proprietario terriero presso cui andava a prestare la sua opera di stagionale, l’avrebbe pagata con una paga quasi “da uomo”.

La discriminazione tra i generi nella retribuzione dei lavoratori era un dato di fatto che la gente accettava tranquillamente: una donna non poteva certo valere quanto un uomo. Questo non valeva soltanto nelle aziende private, ma anche nell’amministrazione pubblica.

Leggo infatti da “Quaderni Erbesi 2024” nel saggio dedicato all’ “Istruzione nel Comune di Arcellasco nell’Ottocento e nel Novecento” scritto dalla professoressa Alberta Chiesa, quanto segue: “La legge Casati del 1859 stabiliva tra l’altro che i compensi delle maestre fossero di un terzo inferiori a quelli dei maestri”.

Purtroppo, la discriminazione persiste tutt’oggi e le donne continuano a combattere per la parità di retribuzione contro quello che oggi viene definito con un termine inglese “gender pay gap”

P:S: Nello stesso articolo della prof Chiesa, a proposito della sede della scuola femminile da istituire a Ponte Lambro (anno 1962 ) si riporta quanto scritto nel verbale di Giunta del Comune di Arcellasco: nell’aula riservata alle bambine sarebbero stati disposti solo due o tre banchi per quelle che dovevano scrivere e “quanto ai sedili per le fanciulle si lascerà che per questo primo anno ognuna porti con sé la propria sedia” !!! (proviamo a immaginare come fosse faticoso andare per esempio da Arcellasco e dalle sue frazioni fino a Ponte con sedia e cartella a tracolla….).

Oggi i nostri bambini non fanno più un passo a piedi e nonni e genitori si precipitano a portare le loro cartelle fino al cancello della scuola.

Poesia:Trovare la libertà (Wadia Samadi)

In questa poesia, l’autrice, che ora vive negli USA, dà voce all’ angoscia di una donna afghana: svegliarsi ogni mattina con quel pensiero fisso in testa che ti dice di scappare lontano e realizzare subito dopo che anche per quel giorno non sarà possibile; aspettare invano per anni che le cose cambino …

Ma alla fine della poesia si sente come un grido di ribellione: bisogna trovare il coraggio di riprendersi la propria vita e la propria libertà. Spero che tutte le donne (non solo in Afghanistan) possano vivere vedendo rispettato il proprio diritto ad essere libere

Mi sveglio ogni mattina progettando la mia fuga
Ma che ne sarà dei miei figli?
Chi mi crederà?
Chi mi darà una casa?
Passano gli anni e io sto ancora aspettando
Quando finirà tutto questo?

Il mio trucco non copre il mio viso livido
Il mio sorriso non nasconde il mio volto tirato.
Eppure, nessuno viene ad aiutarmi
Dicono: andrà meglio
Dicono: non parlarne
Dicono: questo era il mio destino
Dicono: una donna deve tollerare
I panni sporchi si lavano in famiglia, dicono.
Quando finirà tutto questo?

Ancora una volta, trascina il mio corpo sul pavimento.
Mi soffoca e io lo imploro di non uccidermi.
Ancora una volta, pretende il mio silenzio
Ancora una volta mi dice che non merito di vivere.

Ne ho avuto abbastanza
Non voglio tacere
Vivrò
Troverò la libertà
Tutto questo finirà oggi.

(trad. Libreriamo)

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Finding Freedom by Wadia Samadi

I wake up every morning scheming my escape
But what about my children?
Who will believe me?
Who will give me a home?
Years go by and I am still waiting
When will this end?

My makeup does not cover my bruised face
My smile does not hide my haggard visage
Yet, no one comes to help
They say: it will get better
They say: don’t talk about it
They say: this was my fate
They say: a woman must tolerate
Don’t air your dirty laundry, they say.
When will this end?

Once again, he drags my body to the floor
He chokes me and I beg him not to kill me
Once again, he demands my silence
Once again, he tells me I don’t deserve to live

I have had enough
I will not be silent
I will live
I will find freedom
This will end today.

Film: Bread and roses (K. Loach)

Ieri, 1° maggio, su La7 ho visto il film “Bread and roses” di Ken Loach. Credo che sia stato un modo giusto di celebrare la festa dei lavoratori, ricordando quelli che ancora oggi (il film è di 24 anni fa) vengono sfruttati senza pietà perché sono i più indifesi. La protagonista è una giovane donna messicana, Maya, che raggiunge la sorella Rose a Los Angeles dopo essere entrata clandestinamente e in modo molto pericoloso negli Stati Uniti, sfuggendo anche alle grinfie di uno dei tanti trafficanti di esseri umani.

Grazie alla sorella, ottiene un posto in un’ impresa di pulizie e lì conosce un sindacalista, che vuole organizzare delle manifestazioni per rivendicare migliori condizioni di lavoro e di vita (non solo “pane”, ma anche le “rose”, cioè paghe decenti e assistenza sanitaria).

Maya partecipa attivamente all’organizzazione delle manifestazioni, che vedono invece la maggior parte dei suoi compagni molto restia ad aderire alla lotta per paura di perdere anche quel misero posto di lavoro che pure consente loro di sopravvivere.

Anche Rose è contraria a queste rivendicazioni: ha un marito malato e non può permettersi di perdere il lavoro, anzi in cambio di una piccola promozione tradisce i suoi compagni e fa arrestare il sindacalista e chi lo ha assecondato, ivi compresa Maya: lo scontro fra le due sorelle è inevitabile ed è così che Maya viene a conoscenza delle violenze e delle sofferenze a cui si è sottoposta Rose, anche quando era ancora una ragazzina, per aiutare lei e il resto della famiglia

Le manifestazioni raggiungono il loro scopo e i lavoratori ottengono i miglioramenti richiesti, ma Maya, senza documenti e colpevole di alcuni furti (compiuti per aiutare un amico a pagare la tassa universitaria) viene espulsa, ma alla partenza viene salutata da tutti i compagni di lavoro e anche dalla sorella, che non ha mai smesso di volerle bene.

E’ un film che dipinge una realtà cruda senza concedere nulla ai sentimentalismi e allo spettacolo e in cui le persone vengono rappresentate in tutta la loro umanità e autenticità.

Rimpianto.

In questi giorni ho saputo di una conoscente, ormai molto anziana, rimasta sola. Naturalmente le ho telefonato per farle le mie condoglianze e l’ho sentita molto angosciata per non aver voluto figli, perchè spaventata dai sacrifici che comportava l’averne.

Ai suoi tempi la sua scelta era certamente minoritaria: in genere le coppie non si ponevano nemmeno il problema di non avere figli, anche se cominciavano a porsi quello di non averne troppi.

Ora mi chiedo quante (e sono tante) delle coppie che oggi decidono di fare un figlio solo o di non farne affatto, un giorno rimpiangeranno questa scelta? Certamente questo accadrà quando, diventati vecchi e non più autosufficienti, soffriranno per il fatto di non avere nessun familiare accanto al proprio capezzale …ma sarà troppo tardi e i sacrifici così ostinatamente evitati nel passato verranno pagati con una triste solitudine…

Film: C’è ancora domani

Qualche giorno fa su Netflix era disponibile il film della Cortellesi che tanto ha fatto parlare di sé in Italia e non solo.

Mi è piaciuta la ricostruzione dell’ambiente (siamo nel 1946) di quartiere, dove si mescolano solidarietà, invidia, gelosia e dove tutti sanno tutto di tutti. Tutti infatti sanno anche cosa accade in casa di Delia: il marito Ivano coglie ogni pretesto per umiliarla e per metterla in ridicolo anche alla presenza dei tre figli, i quali sanno bene quando devono chiudersi in camera perché il padre si sta preparando a picchiare la madre. Delia apparentemente subisce questa situazione come fosse un destino ineluttabile e non finisce mai di prodigarsi per la famiglia facendo mille lavoretti oltre ad accudire la casa, il marito e i figli. Per questo la figlia maggiore le rinfaccia la sua sottomissione e la giudica, ma Delia riuscirà ad impedirle di sposare un ragazzo troppo simile ad Ivano, che la costringerebbe a ripetere lo stesso calvario della madre.

Poi arriva il colpo di scena che nobilita Delia, le fa riguadagnare la stima della figlia e il rispetto del marito. Questo finale dà senso a tutto il film e al suo titolo: nella rivendicazione dei propri diritti è riposta la speranza di un mondo migliore.

La commozione alla fine del film è immancabile, ma una cosa mi ha colpito e un po’ disturbato: nelle scene in cui Delia veniva battuta selvaggiamente dal marito, i movimenti dei due protagonisti della scena si svolgevano a ritmo di danza sulle musiche di sottofondo. Forse questa scelta è stata dettata dall’intenzione di far capire come questo modo di trattare le mogli fosse cosa abituale e comunemente accettata nel modo di intendere i rapporti familiari nel primo dopoguerra, ma non so quanti abbiano colto davvero il senso macabro di questa scelta.

A parte questo particolare, credo davvero che il successo del film sia ampiamente meritato.